La violenza sulle donne è stata definita dall’ONU “un flagello mondiale” a causa della sua diffusione in tutti i Paesi compresa l’Italia. Gli aggressori appartengono a tutte le classi e compiono abusi fisici e sessuali su soggetti adulti e su minori, sul lavoro e in famiglia. Per combattere questa forma di violenza, oltre alle leggi, servono adeguate forme di prevenzione e di educazione e di supporto ed accompagnamento come il servizio reso dal Consultorio Diocesano di Pescia, al fine di individuare le criticità e diffondere le buone pratiche che mettono sempre al centro la persona umana considerata nella sua unità di corpo anima e spirito. Prevenzione e coraggio sono certamente le armi vincenti di fronte a questi tipi di violenze, che per il timore di non essere credute, o di essere giudicate, ecco la forma di vittimizzazione secondaria che si scatena come un circolo vizioso, preferiscono tacere. In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne e il femminicidio, il Direttore del Consultorio Diocesano, Don Francesco Ciucci, risponderà ad alcune domande, sollecitazioni per riuscire poco a poco a fare chiarezza e luce ad episodi sempre crescenti di violenze nei confronti delle donne della nostra società e comunità, troppe volte tenuti nascosti dentro le mura domestiche, grazie alle sue competenze di psicologo e psicoterapeuta oltre a quelle competenze umane e spirituali del suo essere parroco.
Don Francesco, ci puo’ aiutare a mettere in evidenza gli aspetti sociologici e psicopatologici di questo drammatico fenomeno?
«Ci sono ovviamente molte forme di violenza, che vanno dall’abbandono fisico fino al maltrattamento emozionale e psichico, la punizione corporale, l’abuso sessuale. Queste sono le forme più manifeste, ma ci sono forme più larvate, sottili e sicuramente più frequenti, dove la violenza è spesso un fenomeno invisibile per l’osservatore esterno, situazioni nascoste dentro l’ambito familiare. Pochi casi arrivano al pubblico dominio oppure all’attenzione di figure professionali come medici di base, psicologi, psichiatri, centri di ascolto per le vittime di violenza. La violenza coniugale non solo è espressione di patologia nella coppia ma ha ripercussioni, quando ci sono, sui figli i quali ne sono spettatori e testimoni. Pertanto è un forma di violenza anche per loro per il conseguente abbandono affettivo e per il clima di tensione, paura e minaccia che si sviluppa in questi casi. Ogni forma di violenza ha sempre un’origine psicologica, dove la pulsione del potere sull’altro, di sottomissione, controllo, distruzione, prende il sopravvento. Le persone violente manifestano un’aggressività distruttiva e un discontrollo degli impulsi, e presentano quasi sempre disturbi di personalità (antisociale, borderline, narcisistico…), dipendenza da droghe, abuso di alcol, gravi forme di bipolarismo. Mancano di empatia, si dimostrano ostili nei confronti delle donne e hanno una visione rigida della sessualità. Il carnefice per esercitare la sua forza distruttiva ha bisogno della vittima, di una personalità fragile, dipendente, depressa, che spesso è già stata vittima di forme di violenza e abuso nella sua famiglia di origine».
Quali cause possono spingere a questo?
«La violenza sulle donne è predominante, dovuta in gran parte a substrati culturali passati ma tuttora presenti, dove l’uomo è prototipo e modello di dominanza, forza, efficienza. Spesso sono uomini manipolatori, inizialmente molto persuasivi, che si pongono come “salvatori” dell’altro, come figure protettive, amorevoli e paterne. Una volta raggiunto il legame con l’oggetto, lo sentono di sua proprietà e scaricano su di esso tutta l’aggressività nel momento in cui i loro bisogni e/o le loro aspettative non vengono totalmente soddisfatte. Questo meccanismo inconscio generalmente nasce da delle ferite o traumi durante l’infanzia, bambini abbandonati dalle figure di accudimento, o vittime di violenza e/abusi da parte di coloro che in teoria avrebbero dovuto proteggerli e amarli. In poche parole l’uomo scarica sulla propria donna tutta quell’aggressività che nutre nei confronti della propria madre ma mai agita».
Quale profonda motivazione può spingere una donna ad accettare e non denunciare?
«Come ho accennato precedentemente anche i modelli socio-educativi mirati alla sottomissione hanno una grande influenza: molti studi hanno mostrato che le bambine che assistono ai maltrattamenti nei confronti della madre, hanno maggiore probabilità di accettare la violenza come la norma in un rapporto di coppia rispetto a quelle che provengono da famiglie non volente. Mentre i figli che assistono alla violenza del padre nei confronti della madre hanno una probabilità maggiore di essere autori di violenza nei confronti delle proprie compagne, interiorizzando la violenza come modo di risolvere i conflitti. Per quanto riguarda la vittima spesso cerca di razionalizzare la violenza o l’abuso che riceve, come per esempio sentendosi responsabile, pensare di meritarsi tutto ciò, confermare i propri sentimenti di autosvalutazione. Anche nella mia esperienza clinica ho assistito a dei casi in cui la donna vittima di violenza da parte del partner diceva che pur di non perdere quella persona, perché lo amava, era disposta a tollerare comportamenti sadici e distruttivi. E’ una dinamica di dipendenza dall’altro, di meccanismi inconsci sadomasochistici: “mio padre era ubriaco, mi picchiava, mi ha abbandonato, ora il mio partner anche se fa le stesse cose non mi abbandonerà mai perché io lo amo e lui mi ama e col tempo cambierà. E poi a volte fa bene a trattarmi così, me lo meito…”. La violenza viene minimizzata, giustificata, normalizzata. Altre volte donne isolate dagli altri, che non hanno più rapporti con altri significativi, si sentono sole, abbandonate, non trovano il coraggio di denunciare per la paura di ricevere ulteriori e ben più gravi ritorsioni da parte del carnefice».
Quali percorsi proporre e mettere in pratica per rompere questo circolo di violenza?
«Per chi subisce una violenza ammettere di avere bisogno di aiuto è un atto di consapevolezza e di coraggio. Occorre rafforzare una rete di sostegno (quanto aspettano ad affiancare lo psicologo alla persona del medico di base???). Prendere consapevolezza che la persona violenta che abusa di sostanze o che presenta patologie psichiatriche non cambia se non intraprende un percorso mirato. Contattare un centro violenza, consultori familiari. Lavorare sull’allontanamento e sul riparo delle vittime (case rifugio per madri e figli) ».
di Michela Cinquilli